Guerra travestita da pace: il mondo in coma morale — e l’Italia che ha dimenticato la sua Costituzione
di -mm-
Settembre
2024 — Primo weekend di un autunno che sa di polvere da sparo
Questo primo
weekend di settembre non si apre con la quiete dell’autunno, ma con il rimbombo
sordo di un’umanità che sembra aver smarrito la bussola etica. Viviamo in
un’epoca in cui la parola “guerra” — cruda, inequivocabile — è stata
sostituita, nei discorsi ufficiali e nelle strategie geopolitiche, da un
eufemismo sempre più vuoto: “difesa”. Ma difendere chi? E da cosa? Quando
l’aggressore minaccia ritorsioni contro chi aiuta la vittima, non è più difesa
— è dominio. E lo si fa con una freddezza che ricorda i peggiori momenti del
Novecento.
Ucraina: la guerra che non osa dire il suo nome
Mosca ha
appena alzato la posta: qualsiasi forza straniera sul suolo ucraino sarà
considerata obiettivo legittimo. Non è una minaccia vaga — è un cambio di
paradigma. E trova un alleato non marginale: la Cina, che in questi giorni ha
accolto Vladimir Putin con onori da statista, mentre lui ringraziava
pubblicamente la Corea del Nord per il “sacrificio” dei suoi soldati inviati al
fronte.
“La guerra
non è mai cambiata. Solo i nomi che le diamo.”
— ErnstJünger, Sulle scogliere di marmo, 1939
La logica è
grottesca: colpisci i nordcoreani sul campo, ma se mandi i tuoi uomini li
chiami “missione di pace” e pretendi l’immunità. È la stessa logica che nel
1936 permise a Mussolini di invadere l’Etiopia gridando “civilizzazione”, o a
Hitler di occupare i Sudeti parlando di “protezione dei tedeschi”. Il principio
di reciprocità? È un ricordo sbiadito. Come scriveva Hannah Arendt in Leorigini del totalitarismo:
“Il
totalitarismo non vuole solo il potere sugli uomini, ma vuole un mondo in cui
la verità non esiste più — solo la narrazione del potente.”
L’Italia e
l’articolo 11: un tradimento costituzionale
Ma questa
deriva non è lontana da noi. Ha radici profonde — e italiane. L’articolo 11
della Costituzione repubblicana recita:
Parole
scritte nel 1947, col sangue ancora fresco della Seconda guerra mondiale, con
le macerie delle città ancora fumanti. Parole figlie della Resistenza, del
dolore, della speranza. Oggi? Sono state svuotate. Trasformate. Addomesticate.
Dagli anni
Novanta a oggi — dalla Somalia all’Iraq, dall’Afghanistan alla Libia — l’Italia
ha partecipato a decine di “missioni di pace” che di pacifico avevano ben poco.
Lo storico Alessandro Orsini, in Anatomia delle Brigate Rosse, ricorda:
“Quando una
società smette di chiamare la guerra con il suo nome, inizia a perderne il
senso — e con esso, la capacità di opporvisi.”
La “difesa”
è diventata intervento armato oltre confine. La “sicurezza” è diventata
militarizzazione. E con essa, si è spenta — soffocata, derisa — un’intera
generazione di pensiero pacifista. Quella che negli anni Sessanta e Settanta
riempiva le piazze, quella che nel 1983 costrinse il governo a rinunciare ai
missili Cruise a Comiso. Oggi? Silenzio. O quasi.
Mediterraneo:
la polveriera che nessuno vuole vedere
Mentre
l’Ucraina brucia, il Mediterraneo trema. La crisi di Gaza — ormai oltre 11 mesi
di bombardamenti, assedio, carestia — non è una “emergenza”. È una strategia.
Una guerra protratta, come quella in Siria o in Yemen, che serve a logorare un
popolo fino alla resa. Lo sapeva bene Edward Said, quando scriveva:
“L’obiettivo
non è solo vincere la guerra, ma cancellare la memoria di chi resiste.”
Gaza: non è
solo guerra — è tortura psicologica di massa. E l’incendio si sta allargando
La gente di
Gaza non vive più in una “zona di guerra”. Vive in un laboratorio di stress
collettivo, un esperimento sociale di resistenza forzata al dolore, alla paura,
all’impotenza. Da oltre 11 mesi — 330 giorni di bombardamenti, assedio, fame,
blackout, ospedali colpiti, scuole rase al suolo — ogni respiro è un atto di
sopravvivenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il 90%
della popolazione soffre di disturbi da stress post-traumatico, con punte del
98% tra i bambini. Medici Senza Frontiere parla di “trauma cumulativo”: non è
più la paura di morire, ma la paura di sopravvivere — sapendo che non c’è
futuro, né riparo, né pace.
“Quando la
violenza diventa quotidiana, il trauma diventa ereditario. Si trasmette nei
sogni dei bambini, nel silenzio delle madri, nella rabbia degli adolescenti.”
— Dr. YasserAbu Jamei, direttore del Gaza Community Mental Health Programme, in
un’intervista a The Lancet, gennaio 2024.
In Libano, i
giovani scendono in strada non solo per il pane, ma per la rabbia di sentirsi
impotenti davanti alle immagini di bambini sepolti vivi. In Giordania, le
famiglie palestinesi di terza generazione — nate in campi profughi — strappano
i libri di storia dai muri: “A cosa serve studiare la pace, se il mondo ci
insegna solo la guerra?”. In Tunisia, Algeria, perfino in Italia — nei
quartieri popolari di Palermo, Napoli, Bari — si moltiplicano i raduni
spontanei, i murales, i canti di rabbia. Non sono manifestazioni politiche
organizzate. Sono grida di un’anima collettiva ferita.
E in questa
rabbia, si accende qualcosa di pericoloso: la voglia di combattere. Non per
ideologia. Non per fede. Ma per dignità. Per disperazione. Perché quando ogni
canale istituzionale, diplomatico, umanitario viene chiuso — resta solo il
corpo. Resta solo la strada. Resta solo la resistenza, anche se si sa,
lucidamente, che non si può vincere.
“La
disperazione non è debolezza. È l’ultima forma di coraggio di chi non ha più
nulla da perdere.”
— FrantzFanon, I dannati della terra, 1961
È un
incendio cominciato in un pagliaio — Gaza — ma il vento lo sta spingendo verso
nord, verso est, verso ovest. E non è un fuoco che brucia edifici. Brucia
fiducia. Nelle istituzioni. Nei media. Nella diplomazia. Nell’Occidente che
predica diritti umani e poi vende armi. Nell’ONU che emette risoluzioni e poi
tace. Nella Chiesa che parla di pace e poi benedice i governi che la negano.
“Quando un
popolo viene umiliato sistematicamente, la sua rabbia non si spegne — si
accumula. E prima o poi, esplode.”
E
l’esplosione non sarà un’altra guerra dichiarata. Sarà qualcosa di più
insidioso: la fine della fiducia nel sistema. La nascita di movimenti
spontanei, incontrollabili, radicalizzati non dall’ideologia, ma dalla
disperazione. Come in Algeria nel 1988. Come in Siria nel 2011. Come in Libano
nel 2019. Dove tutto cominciò con un tweet, un prezzo del pane, un blackout — e
finì con il collasso dello Stato.
Un monito:
il Mediterraneo non trema — sta per bruciare
Non stiamo
parlando di metafore. Stiamo parlando di dinamiche sociali documentate, di
psicologia di massa, di storia che si ripete. Gaza è il focolaio — ma il
Mediterraneo è la miccia. E la miccia è bagnata di lacrime, sì — ma anche di
benzina: disoccupazione giovanile al 35% in Tunisia, inflazione al 40% in
Libano, tagli ai servizi in Italia, sfiducia nelle democrazie in tutta la
regione.
Se non si
interviene — non con proclami, ma con azioni: cessate il fuoco, ricostruzione,
giustizia, redistribuzione — questo incendio non si spegnerà da solo. Brucerà
porti, confini, economie, vite. E quando arriverà alle porte d’Europa — non
sarà più “loro”. Sarà “noi”.
“Nessuno è
al sicuro finché qualcuno è in pericolo. Nessuno è libero finché qualcuno è
oppresso.”
— Martin
Luther King Jr., Lettera dalla prigione di Birmingham, in Alabama,1963 — parole che oggi
suonano come un presagio per il Mediterraneo.
Non è solo politica. È umanità in caduta libera.
Questo non è
un articolo di geopolitica. È un grido. Un monito. Un invito a svegliarci prima
che il coma diventi irreversibile. Perché quando smettiamo di chiamare le cose
con il loro nome — guerra, ingiustizia, ipocrisia — perdiamo non solo la
parola, ma la coscienza. E senza coscienza, non c’è futuro.
-mm-
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