sabato 6 settembre 2025

Guerra travestita da pace: il mondo in coma morale

Guerra travestita da pace: il mondo in coma morale — e l’Italia che ha dimenticato la sua Costituzione

di -mm-

Settembre 2024 — Primo weekend di un autunno che sa di polvere da sparo

Questo primo weekend di settembre non si apre con la quiete dell’autunno, ma con il rimbombo sordo di un’umanità che sembra aver smarrito la bussola etica. Viviamo in un’epoca in cui la parola “guerra” — cruda, inequivocabile — è stata sostituita, nei discorsi ufficiali e nelle strategie geopolitiche, da un eufemismo sempre più vuoto: “difesa”. Ma difendere chi? E da cosa? Quando l’aggressore minaccia ritorsioni contro chi aiuta la vittima, non è più difesa — è dominio. E lo si fa con una freddezza che ricorda i peggiori momenti del Novecento.

Ucraina: la guerra che non osa dire il suo nome

Mosca ha appena alzato la posta: qualsiasi forza straniera sul suolo ucraino sarà considerata obiettivo legittimo. Non è una minaccia vaga — è un cambio di paradigma. E trova un alleato non marginale: la Cina, che in questi giorni ha accolto Vladimir Putin con onori da statista, mentre lui ringraziava pubblicamente la Corea del Nord per il “sacrificio” dei suoi soldati inviati al fronte.

“La guerra non è mai cambiata. Solo i nomi che le diamo.”

— ErnstJünger, Sulle scogliere di marmo, 1939

La logica è grottesca: colpisci i nordcoreani sul campo, ma se mandi i tuoi uomini li chiami “missione di pace” e pretendi l’immunità. È la stessa logica che nel 1936 permise a Mussolini di invadere l’Etiopia gridando “civilizzazione”, o a Hitler di occupare i Sudeti parlando di “protezione dei tedeschi”. Il principio di reciprocità? È un ricordo sbiadito. Come scriveva Hannah Arendt in Leorigini del totalitarismo:

“Il totalitarismo non vuole solo il potere sugli uomini, ma vuole un mondo in cui la verità non esiste più — solo la narrazione del potente.”


L’Italia e l’articolo 11: un tradimento costituzionale

Ma questa deriva non è lontana da noi. Ha radici profonde — e italiane. L’articolo 11 della Costituzione repubblicana recita:

 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.”

Parole scritte nel 1947, col sangue ancora fresco della Seconda guerra mondiale, con le macerie delle città ancora fumanti. Parole figlie della Resistenza, del dolore, della speranza. Oggi? Sono state svuotate. Trasformate. Addomesticate.

Dagli anni Novanta a oggi — dalla Somalia all’Iraq, dall’Afghanistan alla Libia — l’Italia ha partecipato a decine di “missioni di pace” che di pacifico avevano ben poco. Lo storico Alessandro Orsini, in Anatomia delle Brigate Rosse, ricorda:

“Quando una società smette di chiamare la guerra con il suo nome, inizia a perderne il senso — e con esso, la capacità di opporvisi.”

La “difesa” è diventata intervento armato oltre confine. La “sicurezza” è diventata militarizzazione. E con essa, si è spenta — soffocata, derisa — un’intera generazione di pensiero pacifista. Quella che negli anni Sessanta e Settanta riempiva le piazze, quella che nel 1983 costrinse il governo a rinunciare ai missili Cruise a Comiso. Oggi? Silenzio. O quasi.

 Mediterraneo: la polveriera che nessuno vuole vedere

Mentre l’Ucraina brucia, il Mediterraneo trema. La crisi di Gaza — ormai oltre 11 mesi di bombardamenti, assedio, carestia — non è una “emergenza”. È una strategia. Una guerra protratta, come quella in Siria o in Yemen, che serve a logorare un popolo fino alla resa. Lo sapeva bene Edward Said, quando scriveva:

“L’obiettivo non è solo vincere la guerra, ma cancellare la memoria di chi resiste.”

Gaza: non è solo guerra — è tortura psicologica di massa. E l’incendio si sta allargando

La gente di Gaza non vive più in una “zona di guerra”. Vive in un laboratorio di stress collettivo, un esperimento sociale di resistenza forzata al dolore, alla paura, all’impotenza. Da oltre 11 mesi — 330 giorni di bombardamenti, assedio, fame, blackout, ospedali colpiti, scuole rase al suolo — ogni respiro è un atto di sopravvivenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il 90% della popolazione soffre di disturbi da stress post-traumatico, con punte del 98% tra i bambini. Medici Senza Frontiere parla di “trauma cumulativo”: non è più la paura di morire, ma la paura di sopravvivere — sapendo che non c’è futuro, né riparo, né pace.

Quando la violenza diventa quotidiana, il trauma diventa ereditario. Si trasmette nei sogni dei bambini, nel silenzio delle madri, nella rabbia degli adolescenti.”

Dr. YasserAbu Jamei, direttore del Gaza Community Mental Health Programme, in un’intervista a The Lancet, gennaio 2024.

 Ma qui sta il punto che nessuno vuole ammettere: questo trauma non è confinato a Gaza. Si è diffuso. Come un virus silenzioso, è entrato nelle case, nelle piazze, nei cuori della gente comune in tutto il Mediterraneo.

In Libano, i giovani scendono in strada non solo per il pane, ma per la rabbia di sentirsi impotenti davanti alle immagini di bambini sepolti vivi. In Giordania, le famiglie palestinesi di terza generazione — nate in campi profughi — strappano i libri di storia dai muri: “A cosa serve studiare la pace, se il mondo ci insegna solo la guerra?”. In Tunisia, Algeria, perfino in Italia — nei quartieri popolari di Palermo, Napoli, Bari — si moltiplicano i raduni spontanei, i murales, i canti di rabbia. Non sono manifestazioni politiche organizzate. Sono grida di un’anima collettiva ferita.

E in questa rabbia, si accende qualcosa di pericoloso: la voglia di combattere. Non per ideologia. Non per fede. Ma per dignità. Per disperazione. Perché quando ogni canale istituzionale, diplomatico, umanitario viene chiuso — resta solo il corpo. Resta solo la strada. Resta solo la resistenza, anche se si sa, lucidamente, che non si può vincere.

“La disperazione non è debolezza. È l’ultima forma di coraggio di chi non ha più nulla da perdere.”

FrantzFanon, I dannati della terra, 1961

È un incendio cominciato in un pagliaio — Gaza — ma il vento lo sta spingendo verso nord, verso est, verso ovest. E non è un fuoco che brucia edifici. Brucia fiducia. Nelle istituzioni. Nei media. Nella diplomazia. Nell’Occidente che predica diritti umani e poi vende armi. Nell’ONU che emette risoluzioni e poi tace. Nella Chiesa che parla di pace e poi benedice i governi che la negano.

 In Egitto, giovani attivisti vengono arrestati per aver condiviso un post su Instagram con la scritta “Liberate Gaza”. In Turchia, i social traboccano di hashtag che chiedono “Intervento militare adesso”. In Italia, nei bar di periferia, si sente dire: “Se fossi là, prenderei un fucile anch’io”. Non è estremismo. È l’effetto domino del trauma collettivo — studiato da Bessel van der Kolk in Ilcorpo accusa il colpo:

“Quando un popolo viene umiliato sistematicamente, la sua rabbia non si spegne — si accumula. E prima o poi, esplode.”

E l’esplosione non sarà un’altra guerra dichiarata. Sarà qualcosa di più insidioso: la fine della fiducia nel sistema. La nascita di movimenti spontanei, incontrollabili, radicalizzati non dall’ideologia, ma dalla disperazione. Come in Algeria nel 1988. Come in Siria nel 2011. Come in Libano nel 2019. Dove tutto cominciò con un tweet, un prezzo del pane, un blackout — e finì con il collasso dello Stato.

Un monito: il Mediterraneo non trema — sta per bruciare

Non stiamo parlando di metafore. Stiamo parlando di dinamiche sociali documentate, di psicologia di massa, di storia che si ripete. Gaza è il focolaio — ma il Mediterraneo è la miccia. E la miccia è bagnata di lacrime, sì — ma anche di benzina: disoccupazione giovanile al 35% in Tunisia, inflazione al 40% in Libano, tagli ai servizi in Italia, sfiducia nelle democrazie in tutta la regione.

Se non si interviene — non con proclami, ma con azioni: cessate il fuoco, ricostruzione, giustizia, redistribuzione — questo incendio non si spegnerà da solo. Brucerà porti, confini, economie, vite. E quando arriverà alle porte d’Europa — non sarà più “loro”. Sarà “noi”.

Nessuno è al sicuro finché qualcuno è in pericolo. Nessuno è libero finché qualcuno è oppresso.

— Martin Luther King Jr., Lettera dalla prigione di Birmingham, in Alabama,1963 — parole che oggi suonano come un presagio per il Mediterraneo.

Non è solo politica. È umanità in caduta libera.

Questo non è un articolo di geopolitica. È un grido. Un monito. Un invito a svegliarci prima che il coma diventi irreversibile. Perché quando smettiamo di chiamare le cose con il loro nome — guerra, ingiustizia, ipocrisia — perdiamo non solo la parola, ma la coscienza. E senza coscienza, non c’è futuro.

-mm- 

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