sabato 6 settembre 2025

Guerra travestita da pace: il mondo in coma morale

Guerra travestita da pace: il mondo in coma morale — e l’Italia che ha dimenticato la sua Costituzione

di -mm-

Settembre 2024 — Primo weekend di un autunno che sa di polvere da sparo

Questo primo weekend di settembre non si apre con la quiete dell’autunno, ma con il rimbombo sordo di un’umanità che sembra aver smarrito la bussola etica. Viviamo in un’epoca in cui la parola “guerra” — cruda, inequivocabile — è stata sostituita, nei discorsi ufficiali e nelle strategie geopolitiche, da un eufemismo sempre più vuoto: “difesa”. Ma difendere chi? E da cosa? Quando l’aggressore minaccia ritorsioni contro chi aiuta la vittima, non è più difesa — è dominio. E lo si fa con una freddezza che ricorda i peggiori momenti del Novecento.

Ucraina: la guerra che non osa dire il suo nome

Mosca ha appena alzato la posta: qualsiasi forza straniera sul suolo ucraino sarà considerata obiettivo legittimo. Non è una minaccia vaga — è un cambio di paradigma. E trova un alleato non marginale: la Cina, che in questi giorni ha accolto Vladimir Putin con onori da statista, mentre lui ringraziava pubblicamente la Corea del Nord per il “sacrificio” dei suoi soldati inviati al fronte.

“La guerra non è mai cambiata. Solo i nomi che le diamo.”

— ErnstJünger, Sulle scogliere di marmo, 1939

La logica è grottesca: colpisci i nordcoreani sul campo, ma se mandi i tuoi uomini li chiami “missione di pace” e pretendi l’immunità. È la stessa logica che nel 1936 permise a Mussolini di invadere l’Etiopia gridando “civilizzazione”, o a Hitler di occupare i Sudeti parlando di “protezione dei tedeschi”. Il principio di reciprocità? È un ricordo sbiadito. Come scriveva Hannah Arendt in Leorigini del totalitarismo:

“Il totalitarismo non vuole solo il potere sugli uomini, ma vuole un mondo in cui la verità non esiste più — solo la narrazione del potente.”


L’Italia e l’articolo 11: un tradimento costituzionale

Ma questa deriva non è lontana da noi. Ha radici profonde — e italiane. L’articolo 11 della Costituzione repubblicana recita:

 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.”

Parole scritte nel 1947, col sangue ancora fresco della Seconda guerra mondiale, con le macerie delle città ancora fumanti. Parole figlie della Resistenza, del dolore, della speranza. Oggi? Sono state svuotate. Trasformate. Addomesticate.

Dagli anni Novanta a oggi — dalla Somalia all’Iraq, dall’Afghanistan alla Libia — l’Italia ha partecipato a decine di “missioni di pace” che di pacifico avevano ben poco. Lo storico Alessandro Orsini, in Anatomia delle Brigate Rosse, ricorda:

“Quando una società smette di chiamare la guerra con il suo nome, inizia a perderne il senso — e con esso, la capacità di opporvisi.”

La “difesa” è diventata intervento armato oltre confine. La “sicurezza” è diventata militarizzazione. E con essa, si è spenta — soffocata, derisa — un’intera generazione di pensiero pacifista. Quella che negli anni Sessanta e Settanta riempiva le piazze, quella che nel 1983 costrinse il governo a rinunciare ai missili Cruise a Comiso. Oggi? Silenzio. O quasi.

 Mediterraneo: la polveriera che nessuno vuole vedere

Mentre l’Ucraina brucia, il Mediterraneo trema. La crisi di Gaza — ormai oltre 11 mesi di bombardamenti, assedio, carestia — non è una “emergenza”. È una strategia. Una guerra protratta, come quella in Siria o in Yemen, che serve a logorare un popolo fino alla resa. Lo sapeva bene Edward Said, quando scriveva:

“L’obiettivo non è solo vincere la guerra, ma cancellare la memoria di chi resiste.”

Gaza: non è solo guerra — è tortura psicologica di massa. E l’incendio si sta allargando

La gente di Gaza non vive più in una “zona di guerra”. Vive in un laboratorio di stress collettivo, un esperimento sociale di resistenza forzata al dolore, alla paura, all’impotenza. Da oltre 11 mesi — 330 giorni di bombardamenti, assedio, fame, blackout, ospedali colpiti, scuole rase al suolo — ogni respiro è un atto di sopravvivenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il 90% della popolazione soffre di disturbi da stress post-traumatico, con punte del 98% tra i bambini. Medici Senza Frontiere parla di “trauma cumulativo”: non è più la paura di morire, ma la paura di sopravvivere — sapendo che non c’è futuro, né riparo, né pace.

Quando la violenza diventa quotidiana, il trauma diventa ereditario. Si trasmette nei sogni dei bambini, nel silenzio delle madri, nella rabbia degli adolescenti.”

Dr. YasserAbu Jamei, direttore del Gaza Community Mental Health Programme, in un’intervista a The Lancet, gennaio 2024.

 Ma qui sta il punto che nessuno vuole ammettere: questo trauma non è confinato a Gaza. Si è diffuso. Come un virus silenzioso, è entrato nelle case, nelle piazze, nei cuori della gente comune in tutto il Mediterraneo.

In Libano, i giovani scendono in strada non solo per il pane, ma per la rabbia di sentirsi impotenti davanti alle immagini di bambini sepolti vivi. In Giordania, le famiglie palestinesi di terza generazione — nate in campi profughi — strappano i libri di storia dai muri: “A cosa serve studiare la pace, se il mondo ci insegna solo la guerra?”. In Tunisia, Algeria, perfino in Italia — nei quartieri popolari di Palermo, Napoli, Bari — si moltiplicano i raduni spontanei, i murales, i canti di rabbia. Non sono manifestazioni politiche organizzate. Sono grida di un’anima collettiva ferita.

E in questa rabbia, si accende qualcosa di pericoloso: la voglia di combattere. Non per ideologia. Non per fede. Ma per dignità. Per disperazione. Perché quando ogni canale istituzionale, diplomatico, umanitario viene chiuso — resta solo il corpo. Resta solo la strada. Resta solo la resistenza, anche se si sa, lucidamente, che non si può vincere.

“La disperazione non è debolezza. È l’ultima forma di coraggio di chi non ha più nulla da perdere.”

FrantzFanon, I dannati della terra, 1961

È un incendio cominciato in un pagliaio — Gaza — ma il vento lo sta spingendo verso nord, verso est, verso ovest. E non è un fuoco che brucia edifici. Brucia fiducia. Nelle istituzioni. Nei media. Nella diplomazia. Nell’Occidente che predica diritti umani e poi vende armi. Nell’ONU che emette risoluzioni e poi tace. Nella Chiesa che parla di pace e poi benedice i governi che la negano.

 In Egitto, giovani attivisti vengono arrestati per aver condiviso un post su Instagram con la scritta “Liberate Gaza”. In Turchia, i social traboccano di hashtag che chiedono “Intervento militare adesso”. In Italia, nei bar di periferia, si sente dire: “Se fossi là, prenderei un fucile anch’io”. Non è estremismo. È l’effetto domino del trauma collettivo — studiato da Bessel van der Kolk in Ilcorpo accusa il colpo:

“Quando un popolo viene umiliato sistematicamente, la sua rabbia non si spegne — si accumula. E prima o poi, esplode.”

E l’esplosione non sarà un’altra guerra dichiarata. Sarà qualcosa di più insidioso: la fine della fiducia nel sistema. La nascita di movimenti spontanei, incontrollabili, radicalizzati non dall’ideologia, ma dalla disperazione. Come in Algeria nel 1988. Come in Siria nel 2011. Come in Libano nel 2019. Dove tutto cominciò con un tweet, un prezzo del pane, un blackout — e finì con il collasso dello Stato.

Un monito: il Mediterraneo non trema — sta per bruciare

Non stiamo parlando di metafore. Stiamo parlando di dinamiche sociali documentate, di psicologia di massa, di storia che si ripete. Gaza è il focolaio — ma il Mediterraneo è la miccia. E la miccia è bagnata di lacrime, sì — ma anche di benzina: disoccupazione giovanile al 35% in Tunisia, inflazione al 40% in Libano, tagli ai servizi in Italia, sfiducia nelle democrazie in tutta la regione.

Se non si interviene — non con proclami, ma con azioni: cessate il fuoco, ricostruzione, giustizia, redistribuzione — questo incendio non si spegnerà da solo. Brucerà porti, confini, economie, vite. E quando arriverà alle porte d’Europa — non sarà più “loro”. Sarà “noi”.

Nessuno è al sicuro finché qualcuno è in pericolo. Nessuno è libero finché qualcuno è oppresso.

— Martin Luther King Jr., Lettera dalla prigione di Birmingham, in Alabama,1963 — parole che oggi suonano come un presagio per il Mediterraneo.

Non è solo politica. È umanità in caduta libera.

Questo non è un articolo di geopolitica. È un grido. Un monito. Un invito a svegliarci prima che il coma diventi irreversibile. Perché quando smettiamo di chiamare le cose con il loro nome — guerra, ingiustizia, ipocrisia — perdiamo non solo la parola, ma la coscienza. E senza coscienza, non c’è futuro.

-mm- 

venerdì 1 agosto 2025

buone vacanze!

 Pensieri lenti e veloci: 

perché leggere Kahneman quest’estate (e perché è un libro antropologico): un libro da leggere (o rileggere) quest’estate

Se state cercando un libro che vi accompagni con profondità e lucidità durante le vacanze, "Pensieri lenti e veloci" di Daniel Kahneman è una scelta imprescindibile. Pubblicato per la prima volta nel 2011 con il titolo originale Thinking, Fast and Slow, l’opera è stata tradotta in decine di lingue e ha raggiunto una risonanza globale che va ben oltre le vendite. Il suo impatto si misura non solo nei numeri, ma nell’influenza duratura che ha esercitato nel mondo accademico, nel business, nella politica e nella cultura popolare. È un libro che ha ridefinito il modo in cui pensiamo al pensiero stesso.

Premio Nobel per l’economia nel 2002 grazie a decenni di ricerca condotta insieme al suo storico collaboratore Amos Tversky, Kahneman ci consegna in quest’opera un’analisi rivoluzionaria del processo decisionale umano. Ma Pensieri lenti e veloci non è solo un testo di psicologia o di economia comportamentale: è un’opera che, a ben vedere, trascende le discipline e si colloca in una dimensione profondamente antropologica.

Una mappa della mente umana: oltre la psicologia

Attraverso il celebre modello dei due sistemi cognitivi — il Sistema 1, rapido, intuitivo e automatico, e il Sistema 2, lento, analitico e consapevole — Kahneman non ci offre semplicemente una teoria della mente, ma una mappa della condizione umana. Una mappa che rivela non solo come decidiamo, ma perché decidiamo così, e in che modo queste modalità di pensiero siano state plasmate da milioni di anni di evoluzione, da strutture sociali, da pratiche culturali e da sistemi di potere.

L’antropologia, intesa come studio dell’essere umano nella sua totalità — biologica, simbolica, sociale — trova in questo modello un potente strumento interpretativo. Non si tratta solo di capire i meccanismi del pensiero, ma di comprendere le radici profonde del nostro agire, le forze invisibili che ci guidano, e il modo in cui la cultura ha cercato, nel tempo, di potenziare la nostra ragione.

Il pensiero come adattamento: l’eredità evolutiva del Sistema 1

Il Sistema 1 non è un difetto della mente umana, ma una soluzione evolutiva. Nell’ambiente in cui si è evoluta la nostra specie — un mondo di predatori, risorse scarse, minacce imminenti — la rapidità era più preziosa della precisione. Il cervello ha sviluppato scorciatoie cognitive (bias, euristiche) non per errore, ma per sopravvivere. Reagire in fretta a un movimento tra i cespugli, riconoscere un volto amico o nemico, valutare rapidamente un rischio: sono capacità che hanno permesso alla specie umana di prosperare.

Da un punto di vista antropologico, il Sistema 1 è il cervello del cacciatore-raccoglitore, ottimizzato per l’immediatezza, per la socialità, per la lettura del contesto. È il sistema che ci permette di muoverci nel mondo senza dover analizzare ogni singolo passo. Ma è anche il sistema che, oggi, ci rende vulnerabili a manipolazioni, stereotipi, reazioni emotive sproporzionate.

La sua forza — la velocità — è anche la sua debolezza: in un mondo complesso, burocratico, mediatico, le stesse scorciatoie che ci salvavano in savana possono condurci all’errore. Il Sistema 1, in fondo, è un ottimo pilota automatico, ma un pessimo comandante in situazioni di turbolenza.

Il Sistema 2 come conquista culturale: la fatica della ragione

Il Sistema 2, invece, è un’acquisizione più recente, non solo dal punto di vista evolutivo, ma soprattutto culturale. Richiede risorse energetiche elevate, attenzione sostenuta, capacità di astrazione — qualità che non sono innate in modo spontaneo, ma che devono essere coltivate. L’educazione, la scrittura, la matematica, il diritto, la scienza: sono tutte tecnologie culturali che esistono per supportare e potenziare il Sistema 2.

Da un punto di vista antropologico, il Sistema 2 non è solo un “muscolo mentale”, ma un artefatto culturale. È qualcosa che si sviluppa in contesti specifici: nelle scuole, nei tribunali, nei laboratori, nei dibattiti pubblici. Non è universale nella sua applicazione: la sua attivazione dipende da valori, motivazioni, gerarchie sociali.

Ed ecco perché, come giustamente osserva Kahneman, il Sistema 2 non si attiva per forza di volontà, ma per stimolo. Parole come potere, sesso, superiorità non sono solo motivatori psicologici: sono simboli carichi di significato culturale, che risuonano con profondi archetipi sociali. Il desiderio di potere, ad esempio, non è solo un impulso individuale, ma un motore sociale che ha plasmato imperi, gerarchie, istituzioni. E proprio perché coinvolge una posta in gioco così alta, richiede pianificazione strategica, gestione del rischio, concentrazione sostenuta — cioè l’attivazione del Sistema 2.

Lo “spazio d’influenza”: un campo di battaglia simbolico

Possiamo immaginare la nostra mente come un campo di battaglia simbolico, dove si scontra il biologico e il culturale, il dato e il costruito. Kahneman ci aiuta a visualizzare questo conflitto attraverso la metafora dello “spazio d’influenza”.

Nel campo del Sistema 1, siamo abitati da forze primordiali: il bisogno di appartenenza, la paura dell’ignoto, la ricerca di riconoscimento immediato. Qui, il mondo esterno — la pubblicità, la politica, i social media — ci modella con estrema facilità, perché parla il linguaggio delle emozioni, degli archetipi, delle narrazioni.

Nel campo del Sistema 2, entriamo in una dimensione più riflessiva, dove possiamo contemplare le regole del gioco. Ma questo spazio non è mai vuoto: è occupato da valori culturali, norme sociali, strutture di potere. La “libertà” non è l’assenza di influenza, ma la capacità di riconoscerla, interrogarla, resistervi.

L’antropologia ci insegna che nessun pensiero è mai completamente autonomo. Siamo sempre immersi in un contesto simbolico che ci precede e ci plasma. La vera sfida, allora, non è diventare “razionali a tutti i costi”, ma sviluppare una consapevolezza critica del contesto in cui pensiamo.

La libertà come pratica: oltre l’illusione della scelta

La domanda più profonda — dove finisce ciò che decidiamo noi e dove inizia ciò che ci viene indotto? — è forse la più antropologica in assoluto. Essa tocca il nucleo del concetto di agenticità umana: la capacità di agire con intenzione in un mondo che ci influenza costantemente.

Kahneman ci mostra che la sensazione di libertà, spesso generata dal Sistema 1, è un’illusione narrativa: il cervello costruisce retrospettivamente una storia coerente delle nostre azioni, facendoci credere che fossero intenzionali. Ma questa illusione non è un difetto: è una funzione sociale. Serve a mantenere la coesione del sé, a giustificare le nostre azioni agli altri, a sostenere la responsabilità morale.

Tuttavia, la vera libertà — quella che l’antropologia può aiutarci a definire — non è la libertà dall’influenza, ma la libertà attraverso la consapevolezza. È la capacità di dire:

“So che sto reagendo a uno stimolo, ma scelgo di riflettere prima di agire”.

È la libertà come pratica, non come stato. E questa pratica richiede coraggio, fatica, educazione.

L’esplorazione spaziale come metafora antropologica

L’esplorazione spaziale, come esempio estremo di sfida umana, diventa qui una potente metafora antropologica. Non è solo un’impresa tecnologica, ma un atto simbolico: l’uomo che supera i propri limiti cognitivi, che attiva il Sistema 2 non per sopravvivere, ma per trascendere.

In quel contesto, la posta in gioco è talmente alta — il futuro della specie, il senso del nostro posto nell’universo — che il pensiero profondo non è più una scelta, ma una necessità. E qui, i motivatori primordiali — il desiderio di gloria, di scoperta, di immortalità — si fondono con la razionalità più rigorosa.

È un momento in cui l’animale simbolico che è l’uomo si rivela nella sua forma più complessa: capace di usare l’intuizione e la logica, il mito e la scienza, per affrontare l’ignoto.

Verso una mente consapevole, culturalmente potenziata

Pensieri lenti e veloci ci ricorda che la mente umana è imperfetta, ma prevedibile. E proprio questa prevedibilità — questa umanità condivisa — è ciò che ci rende capaci di crescere, di educarci, di costruire società più giuste.

Da un punto di vista antropologico, il messaggio più profondo del libro è questo: la razionalità non è un dono, ma un compito. È qualcosa che dobbiamo coltivare, proteggere, trasmettere. È il frutto di una lunga storia culturale, e deve essere difesa dalle forze che ne minano la possibilità — dalla stanchezza, dalla manipolazione, dalla disinformazione.

La vera evoluzione umana non è più biologica: è cognitiva e culturale. E il nostro obiettivo, oggi, non è eliminare i bias, ma renderci custodi consapevoli della nostra mente — imparando quando fidarci dell’intuito, e quando chiamare in causa la ragione.

Perché alla fine, essere umani non significa pensare perfettamente. Significa sapere di non pensar perfettamente — e scegliere, comunque, di pensare meglio.

Un invito all’antropologia della coscienza

Pensieri lenti e veloci non è solo una guida per il singolo, ma un manuale per l’attivismo cognitivo. Ci fornisce il linguaggio e gli strumenti per identificare non solo i nostri limiti, ma anche le forze esterne che li sfruttano e si oppongono alla nostra evoluzione.

Questa è la vera eredità di Kahneman: non una teoria della mente, ma un invito all’antropologia della coscienza. Un invito a osservare noi stessi con lo sguardo del ricercatore, del filosofo, del cittadino critico. Un invito a non smettere mai di chiederci: “Sto pensando io… o è il mondo che pensa per me?”

Per questo, leggerlo (o rileggerlo) quest’estate non è solo un piacere intellettuale. È un atto di responsabilità umana.

 

Buona lettura, e buone vacanze consapevoli.

Marco -mm-

sabato 12 luglio 2025

il paradosso del desiderio tra "chips" e Birkin

Dalla cultura pop alla tecnologia: il paradosso del desiderio tra "chips" e Birkin

Costeggiando un sentiero di sale, l’euforia emerge in momenti dedicati all’attraversamento di rare freschezze intellettuali. Siamo immersi in un paesaggio simbolico dove si incrociano passato e futuro, carne e circuiti, piacere effimero e promessa di eternità digitale. Da un lato le chips come patatine fritte, metafora di un godimento immediato e sensuale; dall’altro le chip , minuscoli frammenti di silicio, emblemi di un progresso che stratifica dati, relazioni e identità.

Siamo dentro un wafer di destino, dove il lusso si intreccia a battaglie doganali, a regole non scritte, a rituali di accesso. Fino a quando non viene sdoganata la patatina più preziosa al mondo: la borsa Birkin di Hermès.

 

Il “Gioco Hermès”: status come pratica rituale

Acquistare una Birkin non è semplicemente spendere. È entrare in un sistema chiuso, un rito di passaggio elitario e discreto. La borsa iconica, ispirata a Jane Birkin e venduta a milioni di dollari, non è mai davvero in vendita. Per averla, bisogna prima essere “visti” – selezionati da un meccanismo invisibile ma potentissimo. Occorre coltivare un rapporto con un addetto alle vendite, dimostrare fedeltà al marchio attraverso acquisti ripetuti, talvolta per anni. Su Reddit, TikTok e Instagram, gli utenti smontano e condividono strategie per vincere il cosiddetto “Gioco Hermès”, trasformando un oggetto materiale in un trofeo sociale.

In questo scenario, il desiderio non nasce spontaneo: viene plasmato, modellato, ritualizzato. I media ne diventano i veicoli principali, alimentando un imprinting culturale che ci fa sognare lei – la Birkin – e quasi nient’altro.

 

Jane Birkin: tra imprinting erotico e legacy mediatica

Jane Birkin divenne icona con Je t’aime… moi non plus , brano audace firmato insieme a Serge Gainsbourg. La sua voce, il suo respiro, la sua presenza fisica incarnarono una rivoluzione sessuale post-bellica, un momento di rottura con i codici morali del dopoguerra. Ma quel momento, apparentemente libero e ribelle, ha finito per sedimentarsi in una forma di mito costruito, riproposto e consumato.

L’immagine di Jane è stata impressa nella memoria collettiva grazie ai media, e questa traccia – questa impronta – è diventata eredità: la Birkin. Un oggetto che contiene non solo pelle e design, ma anche desiderio, storia, sensualità, ambizione. Il nome stesso della borsa è una citazione, una dedica che si è trasformata in brand. In questo senso, la Birkin è l’esempio perfetto di come il desiderio venga imparato, insegnato, replicato attraverso l’iconografia popolare.

Sebbene alcuni vedano nel mito di Jane Birkin un prodotto di marketing vintage, la realtà è ben più complessa: essa rappresenta uno snodo tra libertà espressiva e consumo simbolico, tra eros e status. E la Birkin rimane, per molte generazioni, un sogno concreto e inaccessibile, un oggetto di culto che racconta chi siamo attraverso ciò che vorremmo possedere.

 Economia del desiderio: il lusso come linguaggio universale

La Birkin è “una borsa rettangolare in pelle con chiusura a patta”, ma è anche “l’articolo di lusso più ambito nella cultura popolare”. Questo dualismo tra oggetto e significato è centrale nell’antropologia del consumo contemporaneo. Non è il valore intrinseco dell’oggetto a determinarne il prezzo, ma la rete simbolica che lo circonda: il mito, la rarità, la comunità che lo desidera.

 Secondo i dati di Transparency Market Research, il mercato delle borse di lusso supererà i 53 miliardi entro il 2031. Hermès domina questa economia del desiderio, registrando nel febbraio 2025 un aumento del 18% nelle vendite trimestrali, mentre altri giganti del settore accusano una flessione. Il record? L’Himalaya Diamond Birkin 30, venduta da Sotheby’s per 683.000 dollari.

 Ma perché tanto valore su un oggetto così semplice? Perché il lusso non vende cose: vende appartenenza, narrazione, immortalità.

 Addio a un'icona, salvezza di un mito

La triste notizia: Jane Birkin è morta a Parigi a 76 anni. Buon viaggio, Jane. Hai fatto sognare una generazione uscita dalla guerra con le ossa rotte, hai lasciato un’impronta indelebile di ribellione, di sensualità, di stile. Sei stata l’incarnazione di un’epoca in cui il piacere era ancora legato al corpo, alla voce, alla scena.

 Eppure, oggi quel piacere si traduce in codice, in schermi, in likes, in liste d’attesa per oggetti che parlano di noi senza mai dire nulla. La “patatina” del desiderio è sempre cara, ma tu, Jane, l’hai resa leggenda. E la tua Birkin continua a camminare al fianco di donne che forse non ti hanno mai ascoltata, ma che comunque ti cercano – o ti cercano dentro quell’oggetto che non è mai stato solo una borsa.

 
Chips, Birkin e l’archeologia del desiderio

In fondo, siamo sempre sullo stesso wafer di destino: tra chip digitali che archiviano il nostro passato e birkin che custodiscono il nostro futuro. Tra il cibo che sazia e svanisce e il lusso che accumula senso e valore. Tra l’effimero e l’eterno, tra il corpo e la sua rappresentazione.

 Il desiderio, in tutte le sue forme, è una tecnologia antica. E noi, spettatori di un tempo accelerato, continuiamo a impararlo da film, canzoni, influencer, e da una donna che, con un sospiro, ha cambiato il modo in cui guardiamo al piacere.



-mm-

martedì 1 luglio 2025

Il Caso dell’Iniziativa Italo-G7

 Il Caso dell’Iniziativa Italo-G7

L'IA sovrana (o "Sovereign AI") si riferisce alla capacità di una nazione di controllare la propria infrastruttura, i dati e le tecnologie di intelligenza artificiale. Questo concetto è diventato sempre più importante poiché l'IA sta trasformando vari settori della società, dall'economia alla sicurezza.

il concetto di IA sovrana è una priorità globale, con nazioni che cercano di bilanciare l'innovazione con la sicurezza e il controllo dei dati, sviluppando le proprie infrastrutture e talenti per rimanere competitive nell'era dell'IA. Questa prospettiva tende a rendere consapevoli e non amorfi sudditi L’Antropologia della Sovranità Digitale: https://www.monguzzi.info/2025/07/iniziativa-italo-g7-per-un-hub-africano.html

domenica 29 giugno 2025

’antropologia della costruzione collettiva del reale

 Partecipazione sociale e giustizia simbolica nell’epoca dell’ibrido: un’antropologia della costruzione collettiva del reale

https://www.monguzzi.info/2025/06/antropologia-della-costruzione.html 


Negli ultimi anni assistiamo a un profondo cambiamento nel modo in cui le persone partecipano alla società. Non si tratta più soltanto di votare, firmare petizioni o prendere parte a movimenti politici: oggi la partecipazione riguarda il modo in cui ogni individuo e comunità interpreta, modifica e costruisce il proprio ambiente — fisico, simbolico e digitale.

 

La partecipazione , dunque, non è solo un atto politico: è una pratica culturale e cognitiva fondamentale. E per capirla appieno, dobbiamo guardare al passato e alle radici dell’antropologia.

 

🔍 Antropologia e partecipazione

L’antropologia ha sempre studiato come le culture si formano, si trasformano e si confrontano. Ma non è stata solo una scienza osservativa: è stata anche strumentalizzata per legittimare gerarchie, colonialismi e ideologie oppressive.

 

Oggi, però, può diventare uno strumento di liberazione simbolica : aiutare le persone a comprendere i codici con cui si costruisce la realtà, a non subirli passivamente, ma a riscriverli insieme.

 

Come scriveva lo studioso Arturo Escobar, le tecnologie non sono oggetti neutri: sono forme di vita . Ecco perché non basta usarle — bisogna saperle leggere, criticare e reinventare.

 

🧩 La frode cognitiva: nuovo colonialismo?

Un esempio drammatico di come la partecipazione possa essere distorta è la cosiddetta frode cognitiva . Pensiamo ai deepfake, alle email truffa costruite su misura, ai video falsi che imitano voci familiari: non sono solo attacchi finanziari, ma vere e proprie manipolazioni della percezione umana .

 

Queste pratiche sfruttano le vulnerabilità cognitive delle persone, soprattutto quelle meno alfabetizzate digitalmente. E spesso avvengono in contesti di forte disuguaglianza globale.

 

“Se al bambino non insegni a leggere, lo adatti al tuo alfabeto.”

— tua metafora chiave

 

Questa frase, apparentemente pedagogica, racchiude una verità profonda: molte forme di esclusione oggi sono simboliche e cognitive . Chi detiene il potere sui codici (linguaggi, algoritmi, dati) decide chi può partecipare davvero al mondo contemporaneo.

 

🌐 Tempo ibrido e velocità algoritmica

Viviamo in un’epoca in cui biologico, tecnologico, economico e simbolico si intrecciano in nuove forme di vita. Chiamiamo questo scenario tempo ibrido .

 

Ma c’è un problema: il tempo umano — fatto di pause, di riflessioni, di rituali — non riesce a stare al passo con il tempo algoritmico , che opera 24/7, istantaneamente, senza pause né limiti.

 

Ecco allora emergere una nuova forma di dominio: il colonialismo algoritmico . Le piattaforme globali (Silicon Valley, Shenzhen) impongono grammatiche e logiche estranee a molte comunità, creando dipendenze mascherate da accesso.

 

Non si tratta solo di usare Internet o i social: si tratta di sapere come funzionano , chi li controlla, e come ci influenzano nella percezione del mondo.

 

🛠️ Democratizzare l’alfabeto digitale

Per contrastare questa deriva, serve una vera rivoluzione antropologica : insegnare a leggere la complessità, non imporre l’alfabeto del dominatore.

 

Significa:

 

Democratizzare l’alfabetizzazione digitale , andando oltre l’uso superficiale dei dispositivi.

Promuovere tecnologie conviviali , che rispettino i ritmi locali e le diversità culturali.

Difendere la sovranità simbolica : ogni comunità deve poter ridefinire i propri simboli, linguaggi e narrazioni.

Pensiamo alle pratiche hacker in Africa, dove si sviluppano soluzioni digitali locali; o alle comunità indigene in Bolivia che reinterpretano la tecnologia attraverso la loro visione del mondo. Sono esempi di resistenza simbolica e di partecipazione autentica .

 

🕰️ Sovranità sul tempo

Un aspetto poco discusso è il controllo del tempo . Viviamo in un’era dominata dalla velocità: notizie che corrono in pochi secondi, decisioni prese da algoritmi in tempo reale, mercati che si muovono prima ancora che le persone abbiano il tempo di capire.

 

Ma chi comanda il tempo, comanda il potere. Per questo, la partecipazione richiede di ritrovare il controllo sui propri ritmi — fisici, sociali, simbolici.

 

Serve spazio per il dialogo , per la riflessione, per la lentezza. Serve proteggere i momenti di pausa dalle pressioni del tempo algoritmico.

 

🎯 Conclusione: Partecipare non è accedere, è costruire

La partecipazione non è semplice accesso a internet o a una piattaforma. È la capacità di interpretare, modificare e costruire insieme la realtà .

 

Ecco perché l’antropologia non deve solo descrivere: deve accompagnare, decostruire, reinventare. Deve aiutarci a navigare l’epoca dell’ibrido, valorizzando la complessità, la diversità e la soggettività di ogni cultura.

 

“Insegnare a leggere la complessità, non imporre l’alfabeto del dominatore: questa è la rivoluzione antropologica del XXI secolo.”

 

Argomenti correlati per approfondire:

Colonialismo algoritmico

Frode cognitiva e IA generativa

Tecnologie conviviali

Giustizia simbolica

Deepfake e manipolazione sociale

Relativismo culturale nell’epoca digitale

giovedì 29 maggio 2025

un "coperchio di Pandora"

Salta un "coperchio di Pandora" che, una volta sollevato, rivela complesse dinamiche di potere tra neocolonialismo economico e resistenze anti-neocoloniali. Dei dazi nel globale. Lo svelamento Legale  e l anti-neocolonialismo o neocolonialismo? Questo è il dilemma!

I dazi sono la cartina di tornasole di un sistema globale squilibrato. La loro riforma non è questione tecnica, ma scelta politica tra perpetuare il dominio o costruire un'etica delle relazioni economiche. la "silent war" di cui attualmente si parla si vince solo con un nuovo internazionalismo solidale non superficiale ma profondo come dire, se non hai i satelliti tecnologicamente evoluti non sai quello che c’è sotto nel  tuo giardino.

Mercoledì una corte federale degli Stati Uniti ha bloccato l'entrata in vigore della maggior parte delle ingenti tariffe sulle importazioni imposte dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Questo  parere rappresenta una battuta d'arresto significativa, mentre Trump sta tentando di ridefinire i rapporti commerciali degli Stati Uniti con il resto del mondo, costringendo i governi a sedersi al tavolo delle trattative attraverso nuove e severe imposte, non solo, poiche il gioco influenza e  coinvolge anche le politiche doganali oltre il confine che hanno da sempre gravemente perturbato i flussi commerciali globali e convolto i mercati finanziari.

Le decisioni della Corte per il commercio internazionale con sede a Manhattan, che si occupa di controversie riguardanti il ​​commercio internazionale e le leggi doganali, possono essere impugnate presso la Corte d'appello degli Stati Uniti per il circuito federale di Washington, DC, e infine presso la Corte suprema degli Stati Uniti.

Queste sono interpretazioni che si collocano all'interno di un dibattito politico ed economico molto ampio e polarizzato. Gli analisti, gli economisti e gli osservatori internazionali offrono diverse letture sia delle problematiche intrinseche al sistema commerciale globale sia delle motivazioni, dell'efficacia e delle conseguenze effettive delle politiche di Trump. C'è chi le considera un necessario scossone a un sistema ingessato e chi, al contrario, le vede come un fattore di destabilizzazione dell'ordine commerciale liberale e una minaccia al multilateralismo. Sembra il superamento di quel restante neocolonialismo economico dove ancora molti paesi hanno trasferito modelli di sfruttamento attraverso debiti internazionali e accordi commerciali ineguali. Considerare le potenziali, e talvolta inattese, conseguenze a catena delle grandi rotture sistemiche in un sistema che contiene elementi di ingiustizia strutturale come quelli neocoloniali, la sua crisi può essere vista da alcuni come un'opportunità per un cambiamento radicale, anche se il percorso e gli esiti di tale cambiamento rimangono incerti e oggetto di contesa.

La sentenza del tribunale non è sufficiente a limitare Trump, in quanto il presidente ha a disposizione molte risorse amministrative e i suoi punti di attacco possono essere molteplici.

Siamo al Bivio della Storia?

I dazi sono "termometri" della febbre neocoloniale del sistema globale: rivelano se prevarrà la logica estrattiva (controllo delle risorse via dazi, FMI, cyberspionaggio) o un nuovo internazionalismo. La "silent war" si vince solo con: Sovranità tecnologica (satelliti autonomi, IA low-cost); Giustizia commerciale (dazi selettivi, filiere etiche); Democratizzazione finanziaria (debito ecologico cancellato, FMI riformato).

Come scrive Pataraia, la Georgia è un laboratorio della guerra ibrida russa, ma anche un monito: senza strumenti propri, il Sud Globale resta vulnerabile 

L’alternativa è unmondo dove i satelliti Silent Barker non sorvegliano minacce, ma custodiscono commons orbitali per l’umanità 

La scelta è tra Pandora armata fino ai denti... o scoperchiata verso un nuovo patto sociale planetario.

-mm-

mercoledì 7 maggio 2025

corsa verso l'ignoto

 Corsa Verso l’Ignoto, con una Bussola Etica e il Contributo di Cardano

 Nel cuore del progresso umano si cela una tensione costante tra innovazione e incertezza.

 

Come un viaggio verso l’ignoto, ogni grande trasformazione tecnologica ci spinge a esplorare nuovi orizzonti, ma richiede anche strumenti per orientarci. In questo senso, la metafora della bussola diventa centrale: non solo come guida fisica, ma come principio etico che ci aiuta a navigare il caos dei dati, dell’intelligenza artificiale e delle sfide globali.

In questa prospettiva, il pensiero di Gerolamo Cardano , matematico e filosofo rinascimentale, offre un interessante punto di partenza con i suoi studi sulla probabilità e il rischio che ben si adattano al "viaggio verso l'ignoto" e al "caos dei dati". Pur non essendo l’inventore della bussola – strumento che già da secoli …guidava i navigatori-. Cardano rappresenta… un simbolo del metodo scientifico e dell’approccio razionale alla comprensione del mondo. Attraverso i suoi studi sul magnetismo e le sue riflessioni sulla natura del sapere, egli ci ricorda che ogni strumento, per quanto avanzato, è inutile senza una visione etica e una direzione chiara.

Analisi Unificata: La Corsa Globale dei Dati e l’Innovazione Umana

1. La "Scuola della Strada" e l'Apprendimento Collettivo

Il detto napoletano "la più grande scuola di vita è la strada" incarna un paradigma universale: l'apprendimento umano non è mai lineare, ma caotico, basato su errori, esperienze condivise e resilienza. Questa metafora si applica perfettamente all'era digitale, in cui la tecnologia avanza a velocità esponenziale, mentre la capacità umana di comprendere e utilizzare i dati richiede tempo, adattamento e collaborazione.

Ferrari come metafora : La Scuderia Ferrari genera oltre 1 milione di punti dati al minuto durante le gare di Formula 1. Questo flusso di informazioni riflette la complessità del mondo moderno, dove il valore non sta nella quantità di dati, ma nella loro trasformazione in intuizioni condivisibili (es. IBM Watsonx per i fan).

Lezione universale : L'innovazione non è una maratona solitaria, ma un percorso collettivo. Errori e incertezze sono inevitabili, ma necessari per evolvere.

2. Cloud Ibrido e Data Fabric: Una Rivoluzione Silenziosa

Il cloud ibrido rappresenta una filosofia organizzativa oltre che una scelta tecnologica. Le architetture ibride permettono alle aziende di bilanciare prestazioni, costi, sicurezza e conformità, creando un ecosistema flessibile per sfruttare i dati.

Data Fabric : Un "tessuto di dati" che connette fonti eterogenee (on-premise, cloud privati, cloud pubblici) senza centralizzarli fisicamente. Questo approccio preserva la sovranità dei dati e migliora la qualità dell'addestramento delle IA.

Apprendimento Federato : Un modello rivoluzionario che consente alle IA di imparare da dati decentralizzati (es. ospedali che collaborano senza condividere dati sensibili). Riflette un principio di conoscenza collettiva che rispetta l'individualità.

3. Sfide Globali: Tra Utopia e Distopia

L'adozione del cloud ibrido e dell'intelligenza artificiale solleva criticità fondamentali, che vanno affrontate per garantire un futuro equo e sostenibile.

Sicurezza vs. Collaborazione : Confidential Computing, reti private virtuali (VPN) e gateway cloud mitigano i rischi tecnici, ma il vero ostacolo è culturale. Come convincere aziende e individui a fidarsi di un ecosistema condiviso?

Tempo e Adattamento : La corsa verso l'istantaneità rischia di creare un paradosso: più dati abbiamo, più diventa difficile filtrarli e usarli in modo coerente. La gestione del tempo ("parte fissa e parte variabile") il tempo è inteso come attimo e io sono fermo all’analisi che più ci si avvicina al tempo zero più il tempo si allunga è cruciale per bilanciare innovazione e comprensione. Questo paradosso, che richiede una riflessione approfondita sul concetto di tempo stesso, è esplorato nell'Allegato 1."

4. Geopolitica dei Dati: Nuovi Colonialismi Digitali

Il controllo dei dati è diventato uno strumento di potere geopolitico, ridisegnando gli equilibri globali.

Nuovi colonialismi digitali : Paesi e corporation che dominano infrastrutture cloud (AWS, Azure, Alibaba Cloud) o modelli di IA (GPT-4, Gemini) dettano le regole del gioco. La Cina punta alla sovranità tecnologica con il suo "cloud nazionale", mentre l'UE cerca autonomia con progetti come GAIA-X.

Sovranità vs. Interdipendenza : La sanità globale offre un esempio emblematico. La condivisione di dati medici tra Paesi accelera la ricerca sul cancro, ma richiede piattaforme sicure e neutrali. La sfida è bilanciare interessi locali e globali.

5. Sostenibilità: Il Costo Nascosto dell'Iper-Connessione

La crescita dei data center e dell'IA ha un impatto ambientale significativo, che non può essere ignorato.

Consumo energetico : I data center consumano circa il 2-3% dell'energia globale, con proiezioni di crescita al 7% entro il 2030. La scelta di posizionarli in Paesi che usano energia rinnovabile (es. Svezia) è eticamente cruciale.

IA "green" : Soluzioni come il Federated Learning e modelli leggeri (TinyML) riducono il consumo energetico. La Ferrari, ad esempio, usa simulazioni IA per ottimizzare l'aerodinamica delle sue vetture, riducendo test su pista ed emissioni.

6. Disuguaglianze Digitali: La Frattura Nord-Sud

Mentre l'Occidente specula su IA avanzate, il 37% della popolazione mondiale rimane offline, ampliando il divario digitale.

 Dati come bene comune : Piattaforme come India Stack democratizzano l'accesso ai dati, offrendo servizi digitali a milioni di persone. Tuttavia, replicare questi modelli in contesti meno strutturati (es. Africa subsahariana) richiede alleanze globali.

Formazione e accesso : Progetti come l'African AI Observatory cercano di democratizzare le competenze digitali, ma mancano investimenti strutturali. Senza educazione diffusa, il cloud ibrido e l'IA resteranno strumenti elitari.

7. Etica e Governance: Chi Decide le Regole?

Il dibattito su IA e dati riflette una lotta tra visioni del mondo inconciliabili.

Democrazia vs. Autoritarismo : L'UE regola con l'AI Act, puntando su trasparenza e protezione dei diritti. La Cina usa l'IA per il controllo sociale, mentre gli USA delegano al mercato, con rischi di concentrazione di potere.

IA e diritti umani : Tecnologie come il riconoscimento facciale dimostrano che l'IA non è neutra. Il cloud ibrido può contrastare gli abusi grazie a strumenti come l'end-to-end encryption, ma serve governance etica vincolante.

8. Verso un Ecosistema Planetario di Dati

La metafora della Formula 1 si evolve: non è una gara tra rivali, ma un circuito globale dove ogni attore contribuisce al traguardo.

Città intelligenti e IoT : Singapore e Barcellona e altre città usano dati in tempo reale per ottimizzare traffico ed energia, ma servono framework per condividere best practice. la scalabilità e la replicabilità di queste soluzioni a livello globale presentano delle sfide. La mancanza di framework standardizzati per la raccolta, l'elaborazione e la condivisione dei dati IoT, così come l'assenza di linee guida comuni per l'implementazione delle tecnologie smart, rallentano l'adozione diffusa delle migliori pratiche.

Crisi globali e collaborazione : Durante la pandemia, la condivisione di dati genomici (es. GISAID) ha accelerato lo sviluppo dei vaccini. Per il clima, servono piattaforme ibride che integrino dati satellitari, industriali e governativi.

Quattro pilastri per un futuro equo :

  • Tecnologia aperta : Promuovere interoperabilità e accesso.
  • Sostenibilità radicale : Affrontare il costo ecologico del digitale.
  • Equità digitale : Includere chi è escluso dalla rete.
  • Etica condivisa : Guidare l'IA verso il bene comune.

La Ferrari come simbolo : Così come in Formula 1 servono motori potenti e freni affidabili, nella società servono IA avanzate e controlli democratici. Solo così la corsa globale avrà un traguardo degno: un futuro dove l'intelligenza, artificiale e umana, sia al servizio di tutti.

Conclusione: Una Corsa Verso l’Ignoto, con una Bussola Etica

Il mondo è un laboratorio caotico dove dati, IA e cloud ibrido stanno ridisegnando confini fisici, sociali e mentali. La lezione della "strada" napoletana ci ricorda che l'innovazione nasce da tensioni creative, errori e improvvisazione.


 

Allegato 1 ) . 

ll Paradosso dell'Istantaneità: Tempo e Adattamento" è la forma standard.

L'era digitale ci ha abituati a una corsa verso l'istantaneità: dati in tempo reale, aggiornamenti continui, previsioni immediate. Tuttavia, come hai sottolineato, questa fretta rischia di generare un paradosso:

Più dati abbiamo, più diventa difficile filtrarli, interpretarli e trasformarli in conoscenza condivisa.

La velocità del flusso informativo supera spesso la capacità umana di comprenderlo e utilizzarlo in modo coerente.

L'innovazione tecnologica, se non accompagnata da una riflessione sulle sue implicazioni, può portare a una società iperconnessa ma disorientata, dove i dati diventano rumore anziché strumenti per il progresso.

Questo paradosso richiede una rivalutazione del tempo come risorsa essenziale per bilanciare innovazione e comprensione.

2. Tempi multipli: globale e locale

Il tempo non è un concetto monolitico, ma si declina su più livelli:

Tempo globale : Il ritmo frenetico delle innovazioni tecnologiche, dei mercati finanziari e delle piattaforme digitali è sempre più accelerato. Questo ritmo è spesso imposto da attori dominanti (Big Tech, governi o multinazionali) e non tiene conto delle differenze locali.

Tempi locali : Contesti geopolitici, culturali ed economici influenzano il modo in cui i dati vengono elaborati e interpretati. Ad esempio, un modello di IA addestrato su dati occidentali potrebbe non funzionare efficacemente in un contesto africano o asiatico, dove le variabili sociali e ambientali sono diverse.

Bilanciare questi tempi – globale e locale – è cruciale per garantire che l'innovazione sia inclusiva e adattabile. Come suggerisci, il tempo necessario per comprendere profondamente i dati deve essere considerato parte integrante del processo decisionale.

3. Elaborazione vs. Interpretazione

Il dato grezzo, per quanto abbondante, non ha valore intrinseco. Il vero valore emerge quando:

Elaborazione : I dati vengono processati attraverso algoritmi e modelli di IA per estrarre pattern e informazioni utili.

Interpretazione : Le informazioni estratte vengono contestualizzate e interpretate dagli esseri umani, che ne attribuiscono significato e li traducono in azioni concrete.

Questo doppio passaggio richiede tempo e risorse. Ad esempio:

Nella Formula 1, i dati raccolti dai sensori delle monoposto devono essere elaborati in tempo reale per ottimizzare le prestazioni, ma anche interpretati dagli ingegneri per prendere decisioni strategiche durante la gara.

In ambito sanitario, i dati medici possono essere analizzati da IA per identificare correlazioni, ma solo i medici possono interpretarli in base alla storia clinica e alle condizioni specifiche del paziente.

La sfida è integrare queste due fasi senza sacrificare né la velocità né la profondità.

4. Adattamento ai contesti ecopolitici locali

I dati e le innovazioni tecnologiche non esistono in un vuoto: devono essere adattati ai contesti ecopolitici locali. Questo significa:

Sostenibilità : Considerare l'impatto ambientale delle infrastrutture digitali (es. data center, cloud) e scegliere soluzioni "green" che rispettino le risorse locali.

Equità : Garantire che le innovazioni siano accessibili anche in contesti meno sviluppati, evitando di ampliare le disuguaglianze digitali.

Governance : Progettare sistemi di governance che rispettino le normative locali e globali, bilanciando sovranità e collaborazione.

Ad esempio:

Progetti come India Stack dimostrano che i dati possono essere democratizzati per offrire servizi digitali inclusivi, ma replicare questo modello in Africa subsahariana richiede investimenti strutturali e una profonda comprensione dei contesti locali.

La pandemia ha mostrato come la condivisione di dati genomici possa accelerare lo sviluppo di vaccini, ma solo se accompagnata da meccanismi di fiducia e cooperazione transnazionale.

5. Una bussola etica per il tempo

Per bilanciare innovazione e comprensione, serve una bussola etica che tenga conto del tempo come risorsa preziosa. Questa bussola etica deve essere progettata con un approccio partecipativo, coinvolgendo governi, aziende, comunità locali e cittadini.

6. Conclusione: Tempo come ponte tra innovazione e comprensione

Il tempo non è un ostacolo da eliminare, ma un ponte da costruire. Affrontare l'analisi profonda di questi concetti richiede a sua volta tempo, e questa esigenza è cruciale per bilanciare la necessità di velocità con il tempo richiesto per la comprensione, garantendo che l'innovazione sia sostenibile, inclusiva e orientata al bene comune.

La morale

 

La Formula 1 di oggi sembra imprigionata tra la passione sportiva e l'inarrestabile logica economica. Ci ritroviamo relegati al ruolo di semplici spettatori paganti, ben lontani dall'essere parte attiva dello spettacolo della vita, che appare sempre più guidato dalla 'fretta di far soldi'. Questo non solo ci distanzia dall'azione in pista e taglia fuori l'analisi approfondita dei dati, una risorsa preziosa che resta ignota e sottratta a un'evoluzione più partecipata, ma questa stessa esclusione, e la disillusione che ne deriva, va concretamente a discapito della stessa evoluzione, privandola di prospettive e contributi più ampi. Temo che questa disillusione venga spesso cavalcata e guidata da interessi specifici e da una 'politica burocrazia' che, paradossalmente, ostacola il vero progresso in nome di un presunto controllo o di vantaggi acquisiti. C'è il timore concreto che si ripeta uno scenario già visto in passato, dove una minoranza accumula benefici mentre la maggioranza è costretta a subire, accettare in silenzio, obbligata a leggi fatte nel così detto interesse superiore e magari distratta da un muro di intrattenimento fine a se stesso. La speranza, pertanto, è che si possa ritrovare un equilibrio più sano e inclusivo, che permetta una vera evoluzione e non solo uno spettacolo gestito IBM ><La F1 è a un bivio: può diventare un eco-sistema chiuso, elitario, o trasformarsi in un laboratorio di innovazione sociale e tecnologica condivisa. Riconoscere che esistono "diversi punti di osservazione critico" è fondamentale, perché ogni prospettiva aggiunge un tassello alla comprensione delle sfide attuali, sia che si parli di sport, sia che si parli di dinamiche sociali più vaste.

Tuttavia, un cambiamento autentico è possibile se si creano strutture che redistribuiscano il potere, incentivino la partecipazione e rendano il progresso collettivo più vantaggioso dell’elitismo. La F1 non deve solo indicare la strada, come ha fatto in passato, ma costruirla insieme ai suoi tifosi, trasformandosi in un modello di innovazione che resista alla tentazione di ricadere nei vecchi schemi. La chiave è passare da una filosofia di competizione a una di collaborazione, dove il traguardo non è il profitto, ma il bene comune.

-mm-